Seduta sulla scomoda panca, attendo l’ultimo treno della sera. Non avrebbe dovuto tardare, non capita quasi mai. Trepidante come se fosse la prima volta osservo più in là, dove le rotaie scompaiono oltre la galleria. Ricordo il suo sorriso dolce, timido, il rossore sulle guance. La voce trepidante ad ogni "ti amo", il fiato sul mio collo, la certezza che fosse soltanto mio e di nessun’altra. Indelebile nella mente, il nostro primo incontro, quando il Cielo ha deciso di donarmi un angelo.
Al ballo in maschera, avrei voluto restarmene da sola, senza vedere nessuno, con i miei problemi adolescenziali, i dolori, le frustrazioni, le insicurezze. Indossavo un vestito di chiffon azzurro, ornato da graziosi ricami. Le scarpe sfumavano tra toni di grigio e argento. « Sei una principessa!», diceva mia madre quando, distrattamente, mi versai del punch addosso. Allungai la mano per accettare il fazzoletto da uno sconosciuto e vidi allora un ragazzo alto, di carnagione scura, dai lineamenti mediterranei. Era attraente e irraggiungibile allo stesso tempo. Avrebbe potuto avere ogni donna ai suoi piedi, senza che aprisse bocca o facesse un gesto. A Gaetano però, questo non bastava. Voleva me, e non avrebbe accettato un no! come risposta. Iniziò un assiduo corteggiamento; fiori, lettere, serenate, fino a quando fui consapevole che il mio sogno si avverava ed ero pronta a sacrificare qualunque cosa per stare al suo fianco. Accettai così la sua proposta. Ero felice al punto che quella parola non poteva racchiudere tutti i sentimenti; il batticuore per ogni suo sorriso, per ogni sussurro, ogni suo bacio.
Era presente nei sogni, ogni notte. Quando mi svegliavo rivedevo la sua immagine, quasi mi fosse accanto a cercarmi con la mano, me; sua anima gemella.
Non avevo mai dato peso a certe emozioni, ma la passione, e il grande amore per Gaetano, avevano sconvolto ogni equilibrio, ogni convinzione che avevo dentro prima di conoscerlo. Più i giorni passavano e più era difficile staccarmi dalle sue labbra, dalla voce ammaliatrice. Mi sentivo sua, mi arrendevo, consapevole di farlo, tra le sue forti braccia. Non avevo più ripensamenti, quando la passione raggiungeva il collo, le guance e ogni cellula del mio corpo. Sapevo che tutto ciò era sbagliato, per i miei, per la gente, ma non avrei potuto aspettare ancora, sarebbe stata una sofferenza insopportabile
Se fosse stato necessario, ero pronta a lasciare la mia casa e tutto ciò che avevo per fuggire lontano insieme a quell’uomo ormai centro del mio universo.
Il fischio del treno ora mi desta dai ricordi preziosi, insostituibili, eterni. Si spalancano le porte e scendono pochi passeggeri; una madre con il suo piccolo che dorme ancora, un uomo d’affari con la ventiquattrore, persone stanche ma consapevoli che a casa li aspetta qualcuno, un piatto caldo, un abbraccio, una carezza. Sento una punta di invidia per tutto ciò, ma sono felice per ognuno di loro.
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MALEDETTA DISTRAZIONE
© Francesco Martino – 2010
Questa occasione non posso lasciarmela scappare.
No, proprio no.
Sbagliare ancora una volta significherebbe essere destinato, vita natural durante, ad un incarico d’ufficio, immerso in una valanga di scartoffie e di polvere.
Eh, sì, proprio polvere e cartacce mi toccherebbero, visto e considerato che, non potendomi licenziare, mi destinerebbero nell’unico ufficio rimasto ancora all’età della pietra dove quel che si avvicina di più ad un computer è una vecchia macchina da scrivere modello Olivetti linea 98.
Ma stavolta niente distrazioni.
E che cavolo!
La prima può anche capitare in rarissimi casi a quello meglio preparato di noi, la seconda di per sé è già un evento unico, ma la terza significherebbe essere fuori dai giochi.
Come posso scordarmi le poche e laconiche parole del dirigente d’ufficio proprio dopo la mia seconda disattenzione.
Errare è umano – mi disse apostrofandomi con l’indice della mano destra puntato come un’arma dritto in mezzo ai miei occhi – ma perseverare è diabolico ed è contro ogni nostra regola. Concentrati solo ed esclusivamente sul tuo incarico perchè al prossimo sbaglio non ci saranno più proroghe, raggiungerai il vecchio Aldus giù nell’archivio.
Fortunatamente il mio nuovo cliente è un tipo tutta casa e chiesa. Già, “Tutto casa e chiesa…” è proprio il caso di dirlo.
Puntuale come un orologio svizzero, tutte le mattine dal lunedì al sabato per andare al lavoro, regolarissimo al rientrare nel pomeriggio e ligio a tutti i doveri coniugali e religiosi per la restante parte del tempo, domenica inclusa.
Peccato che non abbia avuto figli, ma in questi casi il destino è imponderabile e questo lo insegnano anche a noi in accademia fin dalla prima lezione.
Ma alla fine dei conti, la distrazione di uno o più figli nella propria vita comporta un margine di difficoltà in più nello gestire ogni individuo; quindi, spiacente per lui, ma meglio per me che ho una difficoltà in meno.
E poi chi sono io?
Il suo salvatore per caso?
Quel che debbo fare è evitare che durante la sua esistenza quotidiana compia degli atti che cambino quanto è scritto nel suo libro del destino e basta.
Questo mi compete, solo questo!
A tal proposito, non so perché proprio oggi ha deciso di andare al lavoro in bicicletta, lui che usa da una vita i mezzi pubblici e manco l’automobile si è comprato.
Sentissi le lamentele della moglie dal giorno che si sono sposati. Ma così era scritto e così ha deciso per lui… e per lei, ovviamente!
Vabbeh, pazienza, vorrà dire che una volta tanto dovrò metterci la mia mano se occorrerà, tuttavia, non credo di dovermi preoccupare più di tanto e proprio perché lo conosco ormai abbastanza bene.
Finora stiamo procedendo a passo di lumaca, su una pista ciclabile che tutti rispettano in questa città e siamo prossimi all’ultimo incrocio prima di entrare nel vialetto privato di casa sua. Un centinaio di metri e manco e siamo giunti alla meta.
Ecco, benissimo così, siamo prossimi all’incrocio. Ah, qua bisogna stare comunque attenti perché la strada è bella larga e a quest’ora c’è ancora parecchio traffico e qualche distratto può sempre capitare.
Qualche metro ancora e… toh, guarda guarda, chi c’è di fronte a noi dall’altro lato pronti anche loro ad attraversare: la mia vecchia compagna di corso Angela con il suo cliente. Eehh, bella gnocca. L’unica capace di distrarmi da qualsiasi dovere anche solo per un secondo…
E tanto o poco più è il lasso di tempo che trascorre e che fa sì che il nostro protagonista molli l’invisibile presa sul suo cliente che attraversa la strada mentre sopraggiunge un furgone con i freni rotti che investe in pieno uomo e bicicletta, uccidendolo.
Porca miseria – esclama Leo subito dopo – adesso sì che sono fottuto. La mia carriera di angelo custode è giunta alla fine!
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IL MIGLIORE AMICO…
di Francesco (Cecco) Martino
L’olosveglia, puntuale come tutte le mattine, diffonde nell’ambiente la mia melodia preferita mista ai profumi di un prato fiorito. Non c’è miglior risveglio di questo.
La soffusa penombra che mi avvolge rimbalza con sottili giochi di luce sui contorni dei mobili dell’arredo della mia camera da letto.
Giro lo sguardo verso la finestra per soffermarmi sulle sottili strisce di luce che attraversano le piccole fessure del pannello di chiusura che lascio sempre aperto per consolidata abitudine.
Per ancora qualche secondo resto fermo, immobile, disteso.
L’abitudinario girotondo dei pensieri del mattino apre la mia agenda mentale: cosa hai lasciato da fare ieri, cosa hai in programma per oggi, non dimenticarti di chiamare il collega d’ufficio e fargli gli auguri per il suo anniversario… ed alla fine del giro ecco arrivare la constatazione più piacevole: oggi è giorno di festa!
Un sorriso mi si stampa sulla faccia, cui segue una frase muta che rafforza il pensiero: ecco arrivato il giorno che mi piace di più.
Il passo che segue è quello di alzarsi per andare lentamente in cucina, molto lentamente, senza fretta per carità; oggi è giorno di festa, no?
Una volta varcata la soglia eccomi davanti al robodomestico che fa bella mostra di sé al centro della parete di fronte. Mi accosto alla striscia di comunicazione e ordino la colazione per poi, mentre la macchina prepara il tutto, spostarmi verso la portafinestra e uscire sul giardino.
La vista è ancora un po’ intorpidita e la vivida luce del giorno mi costringe a ripararmi istintivamente abbassando lo sguardo.
Pochi attimi sono però più che sufficienti perché mi abitui al rilucente chiarore del mattino, così da poter ammirare appieno, come ogni giorno, il panorama del familiare ambiente che mi circonda.
La strada che taglia in due le file di case ordinate e allineate, che si dilungano con piacevole simmetria fin dove giunge lo sguardo.
Pochi rumori stamattina e praticamente nessuno in giro: del resto è ancora un po’ presto. Poi di nuovo sorrido e mi ripeto ancora oggi è giorno di festa per tutti, perché correre ed affannarci come negli altri giorni?
Toh! Ecco là, in fondo al viale, sulla sinistra, un paio di abitazioni più avanti, un abitudinario meno pigro di me che di buona mattina inizia la sua passeggiata con passo accelerato con al seguito il suo fedele animale domestico.
Un cenno di saluto prontamente ricambiato mentre passa dinanzi al mio vialetto per poi proseguire con uguale andatura, con aria soddisfatta.
Questo mi ricorda che ancora non ho visto il mio di animale domestico e, mentre lo penso, ecco giungere un leggero sibilo dalla cucina a segnalarmi che la colazione è pronta.
Il tempo di fare un piccolo fischio di richiamo ed ecco che, dopo qualche attimo, arriva anche lui con quell’andatura un po’ strana, come per tutti quelli della sua specie, alla quale nessuno di noi ha ancora fatto l’abitudine, nonostante siano passati ormai diversi cicli temporali dal loro arrivo.
Del resto il ricordo dei nostri vecchi animali da compagnia che a causa di un virus erano prematuramente scomparsi è ancora troppo vivo e radicato nelle nostre menti.
Quel lungo periodo di assenza dalle nostre case, senza la possibilità di un rimpiazzo, non era stato certo dei migliori.
A quel tempo si fecero avanti le industrie robotiche con i loro surrogati avanzatissimi, ma sinceramente di quel tipo di aggeggi ne avevamo per ogni necessità giornaliera.
Per carità non è che di per sé non andassero bene, ma non potevano mai sostituirsi a un animale da compagnia. Lui ti dava quel qualcosa che nessuna macchina, per quanto ben programmata e avanzata, poteva duplicare.
Poi, inaspettatamente, arrivò quel giorno che ricolmò il vuoto che si era creato nelle nostre esistenze. Il giorno del ritorno della prima missione spaziale interplanetaria.
Quello che portarono era una scoperta che aveva dell’incredibile: l’ultimo esemplare sopravvissuto di un pia-neta morente, lontano centinaia di anni luce da noi.
L’esplorazione di quel mondo lontano dimostrò con la sua presenza di numerosi reperti archeologici che in epoche remote c’era stata una civiltà quasi simile alla nostra, che però sembrava non avere avuto il nostro stesso buon senso, ovvero sviluppare la sua tecnologia di pari passo con l’armonia tra i suoi abitanti. Infatti le ricerche condotte dall’equipe di scienziati al seguito della spedizione avevano dimostrato che si erano in pratica autodistrutti a seguito di un conflitto globale.
Ma non tutto era andato irrimediabilmente perduto.
Proprio nel corso dell’ultimo ciclo di prima esplorazione, la spedizione aveva scoperto, in un anfratto semisepolto tra delle aspre montagne, l’ingresso a una grande costruzione realizzata nel sottosuolo dove erano stivate decine di capsule criogeniche: tutte si rivelarono danneggiate e non funzionanti… tutte meno una!
All’interno di ciascuna furono rinvenuti i resti di materiale presumibilmente organico, mentre nell’unica intatta fu rinvenuto un essere in animazione sospesa che mostrava deboli segni vitali.
Il suo aspetto fisico non era certo dei migliori. Sul nostro pianeta lo avremmo paragonato ad una specie di scherzo della natura.
Va beh, pazienza!
Il Grande Bang, il creatore di ogni cosa, non poteva averci creato tutti tali e quali.
Quel che importava era che sul pianeta morto era rimasto un seme; un seme che aspettava solo di essere preso e ripiantato.
Le tecniche di clonazione dei nostri scienziati erano state in grado di riprodurre in serie la creatura anche se con un limite: non era in grado di autoriprodursi periodicamente come poteva fare ogni essere vivente del nostro mondo e non si era riusciti a trovare il modo di creare dentro di essa tale capacità.
Le ricerche più approfondite e la decodificazione di parte degli archivi realizzati nei successivi viaggi dagli archeobiologi sembravano, inoltre, indicare che in quel lontano pianeta le varie specie viventi fossero divise in due distinti gruppi sessuali che combinandosi consentivano la riproduzione. Gli esami sugli schemi mentali dell’esem-plare sopravvissuto parvero dimostrare con buona ap-prossimazione che non appartenesse alla razza dominante quanto piuttosto a una delle specie della fauna locale che gli antichi abitanti avevano cercato di preservare dalla distruzione.
Bizzarro quantomeno, ma se così aveva voluto per loro il Grande Bang, così doveva essere stato.
La clonazione dimostrò, poi, un secondo limite dato dal fatto che tutte le copie del primo esemplare ne risultavano tali e quali nell’aspetto fisico; ma questo era un particolare di per sé trascurabile. Per il resto, purtroppo, la creatura non si dimostrò pari ai nostri vecchi animali: era molto intuitiva, ma scarsamente intelligente, seppur obbediente ai comandi semplici. Comunque non si dimostrò pericolosa e ciò forse ci convinse a fare il passo successivo.
Avevamo riottenuto quel che più desideravamo: il ritorno di un animale da compagnia nelle nostre case; un animale docile, fedele e buono.
Poco importava che non fosse in grado di emettere suoni, o che fosse uguale nell’aspetto in ogni sua copia, perché il vuoto era colmato ed era questo che importava!
Una cosa però mi dava a volte da pensare. Era poco più di una sensazione, come adesso che si era fermato lì davanti a me, fermo, in piedi sulle sue due zampe e con le altre due immobili lungo i fianchi. Per un breve attimo i suoi due occhi assunsero uno sguardo di consapevolezza che solo le specie senzienti hanno. Ma si trattò solo di un attimo, come le altre rare volte che era accaduto, e subito dopo tornò l’espressione vacua di placida attesa.
Per un’eternità avevamo avuto animali da compagnia che ci somigliavano moltissimo anche nel muoversi, su quattro piedi come noi, saldi e ben piantati a terra e con la triplice vista.
Il fatto che la nuova specie non avesse le stesse doti fisiche sembrava una piccola nota stonata; ma non più di quello.
Mi sposto di fronte al robodomestico e lui, a sua volta, mi passa lentamente davanti per poi fermarmisi di fianco ad attendere il mio successivo comando per il pasto della creatura.
Dopo averlo dato mi avvicino e la carezzo sulla testa, in mezzo a quella insolita massa di pelo scuro che la ricopre.
- Buongiorno, homo sapiens - questo era parte dell’incisione ancora leggibile sulla capsula che riuscirono a decifrare i nostri scienziati - come stai stamattina?
Per un breve attimo lui fissa le sue due pupille nella mia palpebra centrale, dandomi ancora l’impressione di essere pronto a dirmi qualcosa, ma poi subito riabbassa la testa e si mette ad aspettare silenzioso e tranquillo il suo pasto.
Eh, sì! Lo stesso fato beffardo che ci aveva privato dei nostri animali da compagnia, ci aveva permesso di ritrovare, su un altro mondo lontanissimo da noi, il migliore amico che un alphacentauriano potesse avere.
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