Attivare le modalità di emergenza, creare sogno di pericolo imminente. Il sogno non è valido, il soggetto non reagisce. Vasodilatazione improvvisa e pericolosa nella zona mesencefalica della mamma. Pericolo incombente. Trenta secondi alla rottura.
«Mammina svegliati – urlava il feto di meno di quattrocento grammi – svegliati adesso prima che sia troppo tardi. Svegliati per favore, non ricevo più ossigeno, mamma mi ascolti? Ti ho mandato un sogno di preavviso, mi ascolti? Non ho voce né forza sufficiente per svegliare papà e i miei piedini sono troppo piccoli e teneri per scalciare la tua pancia. Te ne prego svegliati».
Rottura dell’intima, rottura della seconda membrana dell’arteria cerebrale media, emorragia in atto, devastazione di ampia area cerebrale a sinistra, mesencefalo e acquedotto di Silvio inondati, dislocazione della linea mediana, shift grave; stato di coma, soggetto femmina, 39 anni, perduto. Feto in imminente pericolo di vita. Necessaria estrazione entro un’ora al massimo.
La donna giunse a sirene spiegate al reparto di ostetricia e ginecologia, già allertato telefonicamente. La stessa barella dell’ambulanza la trasportò in un lampo fin sul lettino operatorio. La priorità era oramai quella di salvare il piccolo feto, troppo piccolo perché potesse farcela a sopravvivere, ma troppo nocivo perché continuasse a restare in quel pancino che l’aveva ospitato per quasi sei mesi. Era lui la noxa che occorreva rimuovere. Sindrome HELP era stato diagnosticato. L’ipertensione arteriosa scatenata da quel corollario di sintomi, aveva fatto sì che una grossa arteria del cervello si fosse spaccata, come se si fosse immessa acqua a pressione in un vecchio acquedotto comunale. Ma quell’acquedotto non era vecchio; forse era difettoso dalla nascita, forse quel tecnico che l’aveva progettato non aveva calcolato che a un certo punto della sua vita, dell’acquedotto cioè, avrebbe ricevuto un afflusso di liquido e una pressione non preventivati, né era stato tarato a sufficienza, fatto è che la devastazione di ampie aree del cervello era stata cruenta, crudele e irreversibile.
Venti minuti e un fagottino più piccolo di un chihuahua veniva estratto da quell’utero ipotonico, molliccio e poco efficiente. Feto vivo in incubatrice, nugolo di neonatologi a prestargli le prime cure e nel frattempo mamma in Rianimazione.
Stato di coma areflessico, pupille midriatiche media ampiezza non reagenti, attività respiratoria spontanea assente o insufficiente, GCS 3. Paziente decerebrata. Imminente pericolo di vita.
E’ così che giunse a noi quella donna di trentanove anni, prima gravidanza, matrimonio recente, figlio desiderato. A quattro chilometri di distanza una mamma in fin di vita, forse col cervello pensante già morto e un fetino, anch’esso in pericolo di vita si parlano, con la forza della telepatia: «Che succede mammina? Ho freddo dentro questa capsula di plastica e metallo. Dov’è il tuo accogliente pancino, soffice e ovattato? Qui avverto dei campanelli che suonano delle note stridule e stonate. Vedo delle luci rosse, ma non è il tranquillizzante e tenero rosso del tuo sangue, questo è un rosso che abbaglia la vista, anche se i miei occhietti sono ancora chiusi per metà. Dove sei? Perché sento la tua voce così lontana?».
«Mi senti lontana perché lo sono fisicamente e dunque non ascolti più la mia voce attraverso le vibrazioni del mio cuore e della mia pancia. E’ con l’anima ormai che ti parlo e con quel briciolo di millivolt che il mio povero cervello, devastato come un granaio dai topi, riesce ancora a emettere. Prima è venuto un dottore che mi ha incoronato con tanti fili colorati collegati a delle margherite bianche appiccicate tra i miei capelli e sulla fronte. Hanno parlato tra di loro, i dottori, hanno parlato di me e di te. Ho ascoltato brutte cose per te e altrettanto per me. Di me hanno detto che il mio cervello non recupererà mai più la sua attività; che è morto insomma. Hanno detto che potrei donare i miei organi a persone sfortunate come me perché malate. Ma più fortunate se io potrò dare loro il mio cuore, i miei reni, pezzi del mio fegato. Pensa piccolo mio, che da sola posso fare felice almeno cinquanta persone. Sai il fegato a pezzettini quanta gente aiuta?
Poi han parlato di te. Hanno detto che sei troppo piccolo per sopravvivere e che perciò tornerai nella casa del Padre, da dove eri sceso su una scala d’oro sei mesi fa. Voluto e desiderato come il gioiello più bello.
Ma non sono triste piccolo mio e tu non tremare di freddo e paura, ritroverai la tua mammina lassù, dove vanno tutte le mamme. Ho un solo cruccio; avrei voluto che tu fossi stato più grande per sopravvivere oppure che fossi già nato, col cuore malato, per darti il mio e continuare così tu a vivere e aiutare papà a portarmi un fiore su un marmo freddo. Ma forse è meglio così piccolo mio».
«Ti ascolto mammina mia. Se annuso sento perfino il tuo profumo».
«Mi hanno detto che morirò oggi. Tra qualche ora iniziano a contare sei ore. Sai quanto sono lunghe sei ore, bimbo mio? E’ il doppio del tempo di una poppata; quelle belle poppate che avrei voluto vederti fare, stretto al mio seno, beato tra le braccia di mamma…
Ecco, arrivano, mi portano su, in sala espianto. Com’è brutta questa parola. Ma tu non aver paura, bimbo mio, la tua mamma non sentirà dolore e alla fine, anche se in spirito, il mio cuore sarà tuo, per l’eternità.
Iniziano, sento freddo, hanno iniziato riempirmi la pancia di ghiaccio e anche le flebo sono gelate.
«Dottori, non pensate a me, coprite il mio bambino che ha freddo, pesa solo quattrocento grammi, non fatelo morire, se potete. Ma se non ce la facesse, copritelo di più.
Ciao tesoro, ci vediamo più tardi».
La tua mamma.
Cronaca vera di una morte cerebrale e di un espianto d’organi. Nel mio Ospedale. Novembre 2010.