Cavaranni
Prologo: Cavaranni, Cava Grande, è una località in Sicilia che è diventata localmente famosa per una gradevole canzoncina che qualche volta si cantava tra cugini ed amici intorno ad un fuoco acceso sulla spiaggia.
Quelli erano tempi in cui fraternizzare tra giovani portava allegria e gioia di vivere.
In questo racconto Cavaranni è il pretesto per narrare di un ragazzo che muove i suoi primi passi in una situazione amorosa inaspettata e che porta scompiglio nella sua giovane pericolosa esistenza.
Attenzione, però, la storia è del tutto immaginaria e non coinvolge affatto persone o fatti reali o personali dell’Autore o di chi sta intorno a lui.
Buona lettura.
Quelli erano tempi in cui fraternizzare tra giovani portava allegria e gioia di vivere.
In questo racconto Cavaranni è il pretesto per narrare di un ragazzo che muove i suoi primi passi in una situazione amorosa inaspettata e che porta scompiglio nella sua giovane pericolosa esistenza.
Attenzione, però, la storia è del tutto immaginaria e non coinvolge affatto persone o fatti reali o personali dell’Autore o di chi sta intorno a lui.
Buona lettura.
Cavaranni
“Supra lu munti, sinu a Cavaranni,
a Cavaranni,
c’è ’na casuzza mmienzu a li virzuri,
a li virzuri,
ci sta ’na picciuttedda di vintanni,
ca teni lu segretu dill’ammuri,
trallalleru, tiro tirò llallà”.
Questo motivetto allegro ed antico gli frullava nella testa, così come se lo ricordava, fin da appena sveglio e questo gli succedeva ormai da tre giorni, da quando, al passeggio serale sul Corso, aveva incrociato per caso una nuova interessante ragazzetta, mai vista prima.
Lo aveva attirato inizialmente uno sventolio di gonna su un paio di polpacci affusolati e due piedini con le unghie laccate di rosso acceso, nei bassi sandali di pelle nera. Era alta quasi come lui, bionda e formosa, proprio come gli piaceva.
Salendo con lo sguardo aveva trovato due occhi azzurri che lo fissavano candida-mente e che gli avevano provocato una stretta decisa allo stomaco che non si aspettava proprio. A lui, che era abituato a sentirsi ammirato dalle ragazze della sua scuola, tutte le volte che passava loro vicino senza guardarle.
Se lo mangiavano con gli occhi quelle ochette e bisbigliavano tra loro, aspettando un suo eventuale saluto, che si guardava bene dal fare: sarebbe stato troppo ‘compromettente’.
E poi non ci pensava affatto, a tutte quelle femmine, preso com’era dalla sua attività ordinaria di piccolo spacciatore di pillole della felicità.
E già, perché Luchino, come si ostinava a chiamarlo sua madre nonostante il suo metro e ottanta di altezza e i suoi settanta chili di muscoli, era diventato ormai da un anno un ‘distributore’ fisso della zona. Il Liceo era la sua ‘piazza’.
Tutti lo sapevano, anche i suoi insegnanti i quali avevano tentato più volte di distoglierlo da quella via infame e pericolosa in cui si era calato un po’ per inesperienza iniziale, un po’ per stupida vanteria e un po’ per interesse economico.
“Male, finisci” gli aveva detto l’insegnante di filosofia dell’ultimo anno di liceo, che stava ripetendo.
“Tu non ti rendi conto dei danni che provochi agli altri tuoi infelici compagni”, gli diceva la professoressa di matematica.
“Come puoi essere così incosciente?” gli ripeteva spesso la professoressa di italiano.
Ma nessuno, però, lo denunciava alle Autorità, come avrebbe dovuto.
E lui faceva spallucce trascurando rimbrotti e consigli, anzi facendo maggiore attenzione a svolgere la sua attività illegale in modo che le Autorità, appunto, non potessero sorprenderlo sul fatto. In fondo, pensava, che faceva di male? Non dava a chi glielo chiedeva proprio quello che, altrimenti, avrebbero ottenuto facilmente da altri?
Stava a loro non abusarne al punto da sentirsi male: lui dava solo le dosi giuste.
Lo aveva attirato inizialmente uno sventolio di gonna su un paio di polpacci affusolati e due piedini con le unghie laccate di rosso acceso, nei bassi sandali di pelle nera. Era alta quasi come lui, bionda e formosa, proprio come gli piaceva.
Salendo con lo sguardo aveva trovato due occhi azzurri che lo fissavano candida-mente e che gli avevano provocato una stretta decisa allo stomaco che non si aspettava proprio. A lui, che era abituato a sentirsi ammirato dalle ragazze della sua scuola, tutte le volte che passava loro vicino senza guardarle.
Se lo mangiavano con gli occhi quelle ochette e bisbigliavano tra loro, aspettando un suo eventuale saluto, che si guardava bene dal fare: sarebbe stato troppo ‘compromettente’.
E poi non ci pensava affatto, a tutte quelle femmine, preso com’era dalla sua attività ordinaria di piccolo spacciatore di pillole della felicità.
E già, perché Luchino, come si ostinava a chiamarlo sua madre nonostante il suo metro e ottanta di altezza e i suoi settanta chili di muscoli, era diventato ormai da un anno un ‘distributore’ fisso della zona. Il Liceo era la sua ‘piazza’.
Tutti lo sapevano, anche i suoi insegnanti i quali avevano tentato più volte di distoglierlo da quella via infame e pericolosa in cui si era calato un po’ per inesperienza iniziale, un po’ per stupida vanteria e un po’ per interesse economico.
“Male, finisci” gli aveva detto l’insegnante di filosofia dell’ultimo anno di liceo, che stava ripetendo.
“Tu non ti rendi conto dei danni che provochi agli altri tuoi infelici compagni”, gli diceva la professoressa di matematica.
“Come puoi essere così incosciente?” gli ripeteva spesso la professoressa di italiano.
Ma nessuno, però, lo denunciava alle Autorità, come avrebbe dovuto.
E lui faceva spallucce trascurando rimbrotti e consigli, anzi facendo maggiore attenzione a svolgere la sua attività illegale in modo che le Autorità, appunto, non potessero sorprenderlo sul fatto. In fondo, pensava, che faceva di male? Non dava a chi glielo chiedeva proprio quello che, altrimenti, avrebbero ottenuto facilmente da altri?
Stava a loro non abusarne al punto da sentirsi male: lui dava solo le dosi giuste.
“E cu lu scrusciu di lu carrettieddu,
lu carrettieddu,
e li cianciani di lu me cavaddu,
lu me cavaddu,
idda s’arrazza e sona tamburieddu,
canzuni di lu spassu e dill’ammuri,
trallalleru, tiro tirò llallà”.
Il motivetto continuava a girargli in capo e gli trasmetteva una gioia segreta ed una gran voglia di vivere e di cantare a voce spiegata, ché tutti lo sentissero.
Forse questa sera l’avrebbe rivista.
Forse avrebbe avuto il coraggio di avvicinarla e di farle capire il suo grande interesse per lei.
Forse anche lei si sarebbe mostrata favorevole, come lui sperava.
Tanti ‘forse’ che stasera avrebbero avuto una risposta.
Quella sera la via del Corso non era molto affollata, per un improvviso calo di temperatura che aveva consigliato a molti di disertare il solito rito del passeggio.
Luchino aveva già fatto due ‘vasche’ e di lei nemmeno l’ombra, ed erano già passate le nove. Non sapeva come si chiamava, né dove abitava, né quanti anni avesse, né dove studiasse o lavorasse. Se non l’avesse rivista, temeva che l’avrebbe perduta per sempre e quest’idea gli stringeva il cuore.Eccola là, finalmente, con le solite due amiche, una per lato, che si guardavano l’una con l’altra a proteggersi dagli importuni. Lo stabilì all’istante.
Si avvicinò e “Buonasera” disse con fare deciso (mentre dentro tremava tutto per l’emozione); “Buonaseeera” risposero cortesi tutte e tre le femmine, mentre a lui interessava solo il saluto che lei aveva accondisceso a rivolgergli a mezza bocca.
“Io sono Luchino Murè”, aggiunse in fretta perdendosi in quegli occhi di mare.
“Ciao, io sono Lucia” disse una delle due guardaspalle, “e io sono Carmela” disse l’altra. E la cosa lo lasciò indifferente.
Ma quando lei gli disse “io sono Lina” con una voce dolce che pareva musica, lui si illuminò in volto al punto che le altre due, capendo, si allontanarono di un passo.
Chiacchierando a bisbigli come vecchi amici affettuosi, passeggiarono da soli per tutto il Corso cinque o sei volte, non se lo ricordava più. Le amiche erano scomparse.
E avrebbe continuato così tutta la notte, se fosse stato possibile, ma alle undici lei lo salutò porgendogli una manina delicata e fresca come acqua di sorgente.
“Ci vediamo domani sera?”, azzardò lui.
“Forse”, fece lei di rimando con un sorriso, scomparendo presto in una via laterale, prima che Luchino potesse proporle di accompagnarla a casa.
Gli aveva detto ‘forse’, pensava il giovane che voleva dire ‘si’, come fanno tutte le donne. Non era così? E la sera dopo, alle otto era già sul Corso.
Due conoscenti lo avevano avvicinato stringendogli la mano nel modo convenuto che significava ‘abbiamo bisogno di te’ e per toglierseli di torno li aveva accontentati subito estraendo in fretta le dosi dalla sua larga cintura imbottita e rinviando al-l’indomani il relativo pagamento, perché aspettava con vera impazienza di incontrare lei. Solo lei.
Ed eccola, bellissima, altera, con gli occhi azzurri che lo incantavano.
Insieme a due robusti giovanotti che lo agguantarono per le braccia. “Carabinieri” dissero tutti e tre mostrando un tesserino con foto. “Vediamo un po’ che cosa tieni nella cinta” disse lei con un serio cipiglio.
Forse questa sera l’avrebbe rivista.
Forse avrebbe avuto il coraggio di avvicinarla e di farle capire il suo grande interesse per lei.
Forse anche lei si sarebbe mostrata favorevole, come lui sperava.
Tanti ‘forse’ che stasera avrebbero avuto una risposta.
Quella sera la via del Corso non era molto affollata, per un improvviso calo di temperatura che aveva consigliato a molti di disertare il solito rito del passeggio.
Luchino aveva già fatto due ‘vasche’ e di lei nemmeno l’ombra, ed erano già passate le nove. Non sapeva come si chiamava, né dove abitava, né quanti anni avesse, né dove studiasse o lavorasse. Se non l’avesse rivista, temeva che l’avrebbe perduta per sempre e quest’idea gli stringeva il cuore.Eccola là, finalmente, con le solite due amiche, una per lato, che si guardavano l’una con l’altra a proteggersi dagli importuni. Lo stabilì all’istante.
Si avvicinò e “Buonasera” disse con fare deciso (mentre dentro tremava tutto per l’emozione); “Buonaseeera” risposero cortesi tutte e tre le femmine, mentre a lui interessava solo il saluto che lei aveva accondisceso a rivolgergli a mezza bocca.
“Io sono Luchino Murè”, aggiunse in fretta perdendosi in quegli occhi di mare.
“Ciao, io sono Lucia” disse una delle due guardaspalle, “e io sono Carmela” disse l’altra. E la cosa lo lasciò indifferente.
Ma quando lei gli disse “io sono Lina” con una voce dolce che pareva musica, lui si illuminò in volto al punto che le altre due, capendo, si allontanarono di un passo.
Chiacchierando a bisbigli come vecchi amici affettuosi, passeggiarono da soli per tutto il Corso cinque o sei volte, non se lo ricordava più. Le amiche erano scomparse.
E avrebbe continuato così tutta la notte, se fosse stato possibile, ma alle undici lei lo salutò porgendogli una manina delicata e fresca come acqua di sorgente.
“Ci vediamo domani sera?”, azzardò lui.
“Forse”, fece lei di rimando con un sorriso, scomparendo presto in una via laterale, prima che Luchino potesse proporle di accompagnarla a casa.
Gli aveva detto ‘forse’, pensava il giovane che voleva dire ‘si’, come fanno tutte le donne. Non era così? E la sera dopo, alle otto era già sul Corso.
Due conoscenti lo avevano avvicinato stringendogli la mano nel modo convenuto che significava ‘abbiamo bisogno di te’ e per toglierseli di torno li aveva accontentati subito estraendo in fretta le dosi dalla sua larga cintura imbottita e rinviando al-l’indomani il relativo pagamento, perché aspettava con vera impazienza di incontrare lei. Solo lei.
Ed eccola, bellissima, altera, con gli occhi azzurri che lo incantavano.
Insieme a due robusti giovanotti che lo agguantarono per le braccia. “Carabinieri” dissero tutti e tre mostrando un tesserino con foto. “Vediamo un po’ che cosa tieni nella cinta” disse lei con un serio cipiglio.
“Sta campagnola...,
ca nun mi runa paci,
di quantu è mariuola,
cridiri nun si pò.
Trallalleru, tiro tirò llallà”.
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