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I RACCONTI DI SALVO: "Il mio Liceo, l'ultima volta dei calzoni corti"


IL MIO LICEO
L’ultima volta dei calzoni corti

Arrivammo puntuali anzitempo il suono della prima campana,
coi nostri pantaloncini corti corti su quelle cosce marezzate dal
primo freddo autunnale che solo Palazzolo Acreide sa offrire il
primo di Ottobre di quel venerdì del 1965.
Era così che vestivamo noi quattordicenni di allora, spesso
anche in pieno inverno e forse fu l’ultima generazione di
ginnasiali coi calzoni corti.
Non erano dei normali pantaloncini all’inglese, stile ‘Bermuda’
come si usa adesso, erano proprio corti, appena sotto l’inguine,
o se volete, un palmo e più sopra il ginocchio. Erano grigi o
neri, con due tasche ‘alla francese’ davanti e due, dritte e col
bottone, dietro.
Non ci vergognavamo di portarli, come non potrebbe
vergognarsi un… nudista nudo in una spiaggia di nudisti. Era
così, e basta. Dalla prima elementare al V Ginnasio.
Così avevano fatto i nostri fratelli maggiori e così avremmo
continuato noi. Era quello il pensare comune, era quello il
concetto di bambino prima, ragazzo poi, adolescente alla fine.
Corti, rigorosamente corti e della foggia che ho prima descritto.
Giusto nella settimana in cui il cielo ed il tempo promettevano
neve o gelo, era ‘consentito’ un pantalone lungo, informe, di
panno. E serviva più che a far moda, a coprire quel ‘rosso
ciliegia’ che colorava i nostri capillari e ci faceva sembrare dei
salsicciotti insaccati.
Io, Ciccio, Paolo, Nicola, Giuseppe, Santo, tutti così.
Alti, bassi, grassi o smilzi, in pantaloncini corti.
Le ragazze invece avevano le loro gonne larghe, lunghe mezzo
palmo sotto al ginocchio, talune col plissé, ed i calzettoni col
risvolto, rigorosamente bianchi. Le più ‘audaci’ azzurri.

I loro capelli lunghi erano spesso tenuti fermi da cerchietti di
metallo, o raccolti in improbabili toupé o in code di cavallo
bloccate da una sorta di cinturino di cuoio intrecciato.
E così le Maria, Silvana, Pinuccia, Concetta, Carmela,
vestivano come il 1965 comandava.
Non eravamo ancora uomini e non eravamo più ragazzi e loro,
le donne, né farfalle né pupe. Un’indefinibile via di mezzo, una
‘chimera’ che ancora non capiva o non sentiva quella voce che
ci gridava dentro, doppiata, fuori, da grammi e grammi di
ormoni che ci davano le caldane, che ci tingevano le guance di
rosa (e non dal pudore), ed a cui non sapevamo come opporci o
come abbandonarci. Anima e materia che si affrontavano tutte
le volte che una Maria od una Lucia si sedeva acconciandosi la
gonna con finta indifferenza. Il beat, con le sue mode e le sue
rivoluzioni non era ancora giunto fino ai 700 metri di altitudine
del mio Paese ma era lì pronto a contagiarci, splendida
influenza che avrebbe permeato la nostra vita; la mia almeno.

Entrammo. Il vecchio portone di Via Maestranza da cui era
entrato ed uscito il nobile Signorotto che ne aveva posseduto
l’edifico per decenni e decenni, aprì le sue fauci e noi, piccoli
‘Giona’, fummo ingoiati dentro. Iniziarono le temute cinque
ore di lezione consecutive, su cui tanto si favoleggiava e vi
assicuro che furono dure, ma dure davvero. Nessuno di noi
c’era abituato e tanto meno da ‘seduto, composto e ben
educato’. E fu duro davvero tollerare quella tortura da
‘Inquisizione’ su quelle seggiole che ne parevano la ‘longa
manus’.

Venne il Preside a darci il benvenuto e ci fece la paternale sulla
‘serietà della scuola, sul prestigio, sull’impegno e bla bla
bla…’. Venne poi la volta di una Professoressa di Italiano che
di punto in bianco iniziò a parlarci di Letteratura. Non ne
ricordo più il nome e neppure l’argomento. Ci colpì tutti,
infine, una giovane Professoressa dal doppio cognome, con due
occhi azzurri indescrivibili per colore, bellezza e vivacità. Ma
ci sbalordì di più che ci desse del ‘Lei’. Non capivo… ero
stranito: “Lei Figura, si accomodi; Figura parli meno, la
prego; Figura venga alla lavagna…”.
E allora iniziai a non
sentirmi più un ragazzo. Qualcuno mi dava del ‘Lei’ come fossi
un adulto. Qualcuno mi stava ‘battezzando’ nuovamente col
mio nome e cognome, dandomi del ‘Lei’, non più con quel ‘tu’
da casermaccia. Mai successo! Ripensandoci, anni dopo, avrei
potuto sentirmi come Richard Gere nel film ‘Ufficiale e
Gentiluomo’. Ero un Uomo… ma coi calzoni corti!

E poi ci parlò del ‘Greco’, di questa nuova lingua di
derivazione fenicia, piena di strani simboli: ‘una formosa
beta, una sinuosa eta, una serpide ro, una biforcuta
gamma, una riccioluta theta’. E noi ascoltavamo rapiti,
mischiando inconfessabili pensieri ad impronunciabili sillabe.
E ci disse ancora che ‘I Greci avevano sette vocali, anziché
cinque come noi o tre come gli arabi, che erano dei grandi
pensatori e dei grandi chiacchieroni, ecco perché avevano
arricchito il loro vocabolario di tutti quei segni in più’. Uno di
noi, celiando, disse che ‘erano state le donne greche ad
arricchirlo, per avere più argomenti di conversazione’.
Chissà chi fu!

Le splendide architetture della loro mente, avevano bisogno di
suoni e segni per esprimere il loro sconfinato scibile e solo così
poterono farlo. E quella nuova lingua, la classe del ‘65/66
continuò poi a parlarla… per sempre. Che fossimo diventati
Medici o Ingegneri o Geologi o Avvocati o Ufficiali
d’Aviazione, od Operai, avremmo sempre detto: ‘miocardico,
idrico, orografico, isonomico, Aeronautico, o soltanto petra’.
Perché il Liceo è come il battesimo ricevuto da piccoli. Non
capisci, allora, cosa ti viene fatto, ma ti segna per la vita. Ti
imprime il suo marchio come l’olio sulla fronte, sulle labbra,
sulle orecchie, sul cuore. Questo è un segno del ‘divino’, quello
è un segno della mente, del carattere. Un segno che dà presenza
di sé anni ed anni dopo, che ti fa ‘diverso’ anche se diverso non
ti sembra di essere. Ti da la percezione di te stesso, come il
battesimo ti da la percezione della tua intimità con Dio.
Entrambi sono semi che crescono lentamente e giorno dopo
giorno ti accompagnano nella vita.
E allora, adesso che mi volto indietro, poco importa che
avessi i calzoni corti, poco importa che mi sentissi nudo così
come dovettero sentirsi Adamo ed Eva dopo il loro peccato di
Superbia, poco importa che mischiassi Ipponatte e John
Lennon, Foscolo e De Andrè, Baglioni e Seneca, Battisti e
Senofonte.

Quei piccoli semi che sapientemente interrarono la
Professoressa dagli occhi di Minerva e tutti gli altri Professori,
germogliarono decenni dopo e come nella favola di Pollicino
mi fecero ritrovare le briciole gettate indietro. Erano i Salvo, i
Paolo, i Nicola, i Cesare, i Natale, caduti dal buco della tasca
dei ricordi e rimasti intatti anche loro ad amare Pavese, Saffo,
Omero e Kant.

E quei sassolini li ho raccolti e:
Messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio
sì che fortuna od altro impedimento rio
non ci potesse dare impedimento
…di stare insieme…….

Scusate se ho preso in prestito Dante Alighieri, che non è solo
Divina Commedia, ma anche ‘Guido io vorrei’ o ‘Solo e
pensoso’.

E soltanto adesso, alle soglie della terza età, li gusto
e godo come il gelato che gustavo d’estate, alla Villa a
Palazzolo, finita la lezione al Liceo, coi calzoni corti.
Quell’ultima estate così.

I RACCONTI DI SALVO: PIT STOP - TERZA PARTE




Le strade di Roma al crepuscolo scorrevano via veloci insieme agli alberi e alle ginestre che punteggiavano di giallo le mura antiche della città facendo da dolcissima assonanza col rosso sbiadito dei mattoni. Le rigide balestre della macchina si torcevano e sussultavano sui sampietrini e pareva che la 500 da un momento all’altro si sarebbe aperta tutta. L’atmosfera che si creava era tuttavia di grande erotismo perché quegli ondeggiamenti si trasmettevano al seno e alle gambe di Elisa facendoli levitare come fossero in assenza di gravità. Giorgino naturalmente gongolava e non accennava affatto a evitare le buche e le asperità della strada. Finalmente raggiunsero la provinciale ben asfaltata che li avrebbe condotti verso il mare.
Ora finalmente l’uomo poteva dare potenza a quella piccola bomba a quattro ruote. Aprì la capote e una folata di aria rovente li investì, subito sostituita da una brezza più fresca perché la strada in quel tratto correva tra due file di pini che la ombreggiavano, donandole una frescura resinosa gradevolissima. “Finalmente Elisa, – apri bocca Giorgino, muto fino a quel momento – finalmente posso scarrozzarti come avrei voluto fare tanti anni fa. Adesso vuoi dirmi cosa veramente cerchi da me?”. Elisa non rispose ma chiuse gli occhi, abbassò un poco lo schienale del suo sedile ed iniziò a respirare a pieni polmoni l’aria che le scarmigliava i capelli finissimi annodandoli in mille trecce. Rimase così diversi minuti respirando ed ogni tanto emettendo dei gridolini quando il suo ‘Schumacher’ tirava più forte o abbordava le curve derapando e facendo fischiare le ruote. “Te la sentiresti di far fuori Alberto?”. La voce di Elisa tornata nuovamente calda e sensuale rimbombò nelle orecchie di Giorgino superando il ‘rombo Abarth’ mentre la macchinetta affrontava una serie di tornanti che si inerpicavano su per un colle dal quale avrebbero poi visto il mare di Roma. “Thàlassa, thàlassa – riprese Giorgio, che aveva fatto finta di non sentire le parole di Elisa – ricordi Senofonte? Piccola peste?”. “Ricordo bene Senofonte anche a distanza di tanti anni, ma non hai risposto alla mia domanda:te la senti di togliere di mezzo Alberto?”.
La sterzata violenta colse Elisa di sorpresa così che si ritrovò addosso a Giorgino che nel frattempo giocava di freno, frizione ed acceleratore fino a che non arrestò l’auto all’interno di un tratto sterrato a mezza curva, in cima al poggio.
La vista che si godeva era esaltante. L’ultimo spicchio di sole si tuffava nel blu del Tirreno e l’uomo, senza dire parola, scese dalla macchina e si diresse verso lo strapiombo, poco più avanti. “Elisa, basta!Smetti di giocare con me. Tira fuori tutto quello che hai da dirmi – le urlò di lontano con quanto fiato aveva dentro – e dopo ti riaccompagno”.
La donna scese, le gambe ben accostate, movenze da grande Star, si affiancò a Giorgino: “ Ho sposato Alberto solamente per soldi e ancora per soldi continuo a stare con lui. E sempre per soldi ci vado a letto e solo pensando ai soldi sopporto le sue sfuriate del cazzo, le sue corna, le sue assenze. Non ho lui nel cuore e non lo voglio più vicino. Ma se divorzio perdo tutto … o meglio, ci guadagno poco. Hai idea del suo patrimonio? Duecentocinqunatamilioni di euro solamente di titoli immediatamente svincolabili, cash. Quattro miliardi di euro di patrimonio immobiliare sparso in giro per l’Europa. E, dulcis in fundo, un’assicurazione sulla vita di un miliardo di euro, interamente reversibile alla vedova con clausola di raddoppio in caso di premorienza prima di dieci anni di matrimonio e una piccola infinitesima clausola che il porco ha messo per fregarmi. Non dovrò avere alcun altro uomo dopo la sua morte. Nel caso lui morisse avrei alle costole uno spione di un’agenzia investigativa belga che con un paio di foto manderebbe a monte l’eredità. Posso divorziare da uno così?”.
Giorgino era allibito.Tanti soldi in vita sua non li aveva mai visti e non li avrebbe mai visti ma soprattutto pensava che un uomo, l’uomo della ‘sua’ donna, non potesse mai avere tanta ricchezza. Aveva in testa un turbinio di domande, di risposte, di dubbi, di paure … questa donna che tornava dal nulla, che lo eccitava al limite del sopportabile … adesso gli proponeva un omicidio. E poi perché proprio lui? Poteva fidarsi di chi lo aveva tradito? In amore, d’accordo, ma sempre tradimento era – pensava Giorgino – e io come un coglione, ora che me la ritrovo davanti, mi squaglio come un sorbetto.E … cosa dovrei fare io?”. ‘Ma sono impazzito? Lei mi commissiona un omicidio e io … le chiedo pure il mio ruolo?’.
“Tu dovrai sabotare la 500 in modo da fargli avere un incidente da cui non dovrà uscire vivo. Non dovrà assolutamente emergere il sabotaggio o sarà la fine dell’eredità e finiresti in galera e forse io con te”. Inaspettatamente l’uomo esplose in una fragorosa risata e la tiepida sera d’agosto gliene riportò l’eco, ma distorto, surreale. “Elisa tu vedi troppi film, guardi troppa TV, leggi troppi gialli … tu … ma ti rendi conto? Sabotare la macchina …e ammesso che potessi farlo, come avrei la certezza che non ne uscirebbe vivo? E ammesso che tutto filasse liscio, come ci godremmo poi i soldi, vista la clausola che lui ha posto? Con un detective alle costole verremmo beccati subito e addio eredità. Ascolta Elisa … divorzia da lui, gli spilli qualche milione di euro e fai la vita da gran signora lo stesso … facciamo la vita da gran signori. Hai anche le prove del suo tradimento, dovrà mollartelo per forza buona parte del suo malloppo”.
Elisa anziché rispondere gli volse le spalle e tornò verso l’auto. Poggiò le mani sul cofano, di spalle a Giorgio, e gli urlò senza neppure voltare la testa: “Vuoi capire che non ho altra scelta che questa?Ho studiato ogni altra soluzione e questa è l’unica, l’unica, vuoi capirlo, testone?”. Stette così, immobile, sapendo già quello che sarebbe successo dopo.
Giorgino rimase a guardare gli ultimi bagliori del tramonto sul mare e rimuginò dentro di sé i discorsi di Elisa. Pensò che erano discorsi da matta, da incosciente, da … si voltò e vide quella donna che tanto aveva amato ai tempi della scuola e che adesso desiderava tanto. Le si accostò con fare deciso, sentì il calore della sua schiena e quando decise di prenderla, lo fece. Elisa emise un lungo sospiro, assecondò il suo desiderio con un lento, sapiente movimento. Lasciò che le mani di lui abbrancassero il suo bacino ritmandone il dondolio e si lasciò andare ad un lungo, simulato mugolio quando sentì il desiderio dell’uomo esploderle dentro. “Ti amo – le urlò più volte nell’orecchio – ti amo, ti amo”.
Elisa non rispose ma si limitò a guardarlo e Giorgino 56 rispose a quello sguardo: “Va bene, saboterò la macchina meglio di come farebbero nei film. Te lo giuro”. Risalirono in auto e tirati giù i sedili si amarono ancora finché non fu buio del tutto.

Più volte Elisa urlò il suo piacere, troppo forte perché fosse vero,ma Giorgio non capì. Un’auto con dei giovani a bordo e l’autoradio a tutto volume rallentò nei pressi della curva e dello sterrato. Dovettero intuire cosa accadeva a bordo della 500 gialla, perché si udì, inconfondibile, il vernacolo romanesco: “ A zozzi!”. Elisa e Giorgio si abbracciarono ancora più stretti, ridendo come matti. Poi si rivestirono in fretta e fecero ritorno in città. Non si dissero una sola parola sulla strada del ritorno. Non si guardarono, non si sfiorarono. Sembrava avessero timore l’uno dell’altra. “Domani ti chiamo e ti faccio sapere come preparerò la macchina che ti serve”. Elisa scese dalla 500, salì sulla sua splendida Delta azzurra e si immerse sgommando, nella notte romana.

“Ecco qua dottor Carracci la sua disperata è pronta. E’ semplicemente splendida, il motore va che è una bomba. In salita non la batte nessuno e nel misto stretto ha poche rivali anche contro le cilindrate più grosse. L’ho provata ieri tutto il giorno sul “Poggio del burino”, ma vorrei che andassimo insieme a provarla, il peso di due persone in una cilindrata così piccola potrebbe fare la differenza”. Giorgino mise in moto, un paio di sculettate e la fiammante 500 fresca di lavaggio, iniziò a mordere l’asfalto. Come alcune sere prima, ma quella volta in compagnia della seducente Elisa, l’asfalto romano filava liscio sotto la macchinetta. Giorgino mentre guidava ripassava nella mente le modifiche e i sabotaggi che aveva approntato. Il cambio si sarebbe “piantato” in folle proprio nel momento di massima richiesta del freno motore, nel passaggio dalla terza in seconda. Il piantone dello sterzo si sarebbe bloccato, semiruotato verso destra e il pedale del freno sarebbe andato a fondo corsa, col circuito dei freni pieni d’aria. Niente avrebbe potuto impedire alla macchina di puntare dritto il muretto laterale della quinta curva a scendere; troppo fragile anche per trattenere una 500, e il volo giù per lo strapiombo sarebbe stato fatale. ‘Grande che sono stato – sembrava pensare Giorgino con un sorriso soddisfatto sulle labbra – nemmeno i meccanici della Ferrari saprebbero far di meglio. Tutto calcolato, ventiquattro cambiate dalla partenza dal poggio in poi e infine il forfait definitivo di sterzo e freni insieme al cambio’. Non sarebbero rimasti una sola briciola di macchina e conducente dopo un volo di oltre cento metri tra spuntoni di roccia e frangersi di onde giù nella scogliera.

“Alberto Carracci, magnate delle Assicurazioni europee
perde la vita in un tragico incidente sulla scogliera
romana. Il noto miliardario perde il controllo dell’auto, una Fiat 500
appena rimessa a nuovo dal suo meccanico di fiducia e vola giù per la scogliera
del mare. Insieme a lui perde la vita anche il meccanico”
....CONTINUA
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L'intervista semiseria

"A proposito di Maximilian ... dialogo intervistato ai due autori ... raccontato da uno dei due"
Cecco (Francesco Martino) - Correva l'anno ....
Peppe (Giuseppe Cristiano) - Che fai parli al passato?
C - No, era per creare l'enfasi.
P - Meglio di no, guarda, noi scrittori del genere fantastico passiamo già per mezzi paranoici, prova un'altro inizio.
C - Vabbeh .... allora ..... una sera di dicembre dello scorso anno ....
P - Ecco, vedi! Così va già bene.
C - Oh che bello ... allora ... dov'ero rimasto ... ah, sì, dicembre dello scorso anno ....
P - L'hai già detto questo ...
C - Lo so ma se non finisco qua andiamo avanti fino alla notte dei tempi.
P - Sono d'accordo con te, vai pure.
C - Avanti fino alla notte dei tempi?
P - Beh, se vuoi, ma posso farti compagnia fino ad un certo tratto ... poi avrei alcune cose da fare.
C - Che fai sfotti? E meno male che l'intervista è dal mio punto di vista.
P - Mmmhhh.....
C - Che c'è, non ti senti bene?
P - No .... fame!
C - Ma se abbiamo mangiato poco fa!
P - Appunto ... ecco perchè ho ancora fame, il ricordo è troppo vicino.
C - Ah .... allora sarò breve, ok?
P - Va bene, vai pure non preoccuparti.
C - E andiamo allora .... dunque l'idea era una delle tante non realizzate che avevi nel cassetto, me la mandasti tra una mail e l'altra ed io te la rimandai con qualche variante che mi era venuta sul momento.
P - Sì, esatto.
C - Poi tu il giorno dopo mi telefonasti dicendomi se me la sentivo di proseguire il progetto a quattro mani, ricordi?
P - Sì, sì, mi ricordo.
C - A gennaio feci il mio primo volo aereo Roma-Stoccolma e ti raggiunsi ed in due giorni buttammo giù il soggetto del primo episodio e le idee di base per i successivi ... e si cominciò da subito a scrivere.
P - Era buona la pasta al tonno che ci preparammo.
C - Ma pensi solo a mangiare ... comunque hai ragione proprio buona, e ci mettemmo anche una scatola di pelati ... anzi no era polpa di pomodoro se non ricordo male.
P - Sì era proprio quella, alla prima occasione dobbiamo rifarla.
C - Eh sì, quando si parla di mangiare mi trovi sempre favorevole.
P - (nessun commento e mano destra a massaggiare lo stomaco).
C - (nessun commento e mano sinistra a massaggiare lo stomaco).
P - Hai già finito?
C - Eh? ... No, no, chiudo subito che è venuta fame anche a me.
P - Ok.
C - Allora per farla breve il primo l'abbiamo già scritto ed il secondo è sulla buona strada, ed intanto si è aggiunta qualche altra idea, previsioni?
P - Mah l'estate è ormai finita quindi non è che ci si deve aspettare chissacchè dal tempo.
C - Che fai sfotti un'altra volta.
P - Ma se mi hai chiesto tu le previsioni?
C - Ecco ... appunto ... sarà la fame ... vabbeh, allora penso che posso chiudere per tutti e due dicendo che la cosa più bella è credere sempre in quel che si fa e se questo viene da comuni passioni è difficile che venga male.
P - Beh, hai detto tutto bene, allora potevi farla da solo l'intervista.
C - E perchè? Secondo te che ho fatto? Vabbeh, dai andiamo a mangiare che mi è venuta nuovamente fame.
P - Ok, ma mi sa che la polpa di pomodoro è finita.
C - Mmmhhh ... c'è l'hai la passata?
P - Sì quella quanta ne vuoi.
C - Allora stiamo a posto ... vai col tango e buon appetito a tutti!